Verso il G8 in Italia

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VERSO IL G8 IN ITALIA

Marco Antonio Sodi*

Agosto 2008


Il G8, che allora era il Gruppo dei Sei, nacque a metà degli anni Settanta come
risposta dei maggiori paesi industrializzati al primo choc petrolifero,
l’embargo dell’Opec durante la guerra del Kippur.
Più di trent’anni dopo questo embrione di governo globale si ritrova alla casella
di partenza.
E’ di nuovo alle prese con una gravissima crisi energetica, che propaga il
virus dell’inflazione su tutto il pianeta, senza aver fatto passi in avanti per
ridurre la nostra dipendenza dagli idrocarburi. L’agenda dei temi che hanno
dominato l’ultimo vertice sull’isola di Hokkaido è la fotografia di un
monumentale fallimento. La mancanza di una politica per il risparmio energetico
e la diversificazione delle fonti ci presentano il conto. Negli Stati Uniti la
General Motors è sull’orlo della bancarotta e la sua capitalizzazione di Borsa
è stata superata da una catena di caffè (Starbucks). Il crollo dell’industria
automobilistica nel Paese più motorizzato del mondo è uno dei segnali di
collasso di uno stile di vita e un modello di consumi insostenibile. American
Airlines e United, le due più grandi compagnie aeree, stanno licenziando
migliaia di dipendenti. Insieme con l’era dei Suv tramonta anche il periodo in
cui gli americani prendevano l’aereo come un autobus. Vengono al pettine i nodi
del "ventennio sprecato": a iniziare dalla presidenza di George Bush
padre, l’America ha rinunciato a essere il laboratorio di una nuova modernità,
ha scartato le strade per creare ricchezza senza distruggere le risorse
naturali del pianeta. I risparmi energetici che ci furono dopo lo choc degli
anni Settanta, sono stati annullati dagli anni Novanta a oggi. Nello stesso
momento in cui il petrolio è giunto a 145 dollari a barile, George Bush è
andato a Toyako a sostenere due posizioni inconciliabili. Da una parte è stato contrario
ad allargare in tempi rapidi il G8 per includervi Cina e India. D’altra parte
lui stesso ha ammonito che un’azione seria contro il cambiamento climatico è
impossibile senza coinvolgere Cina e India, i nuovi giganti anche
nell’emissione di Co2. Le potenze asiatiche hanno reagito con fastidio. Con
appena il 4% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti continuano a consumare
un quarto di tutto il petrolio. A Pechino, la città con il più alto reddito pro
capite della Repubblica Popolare, gli ingorghi automobilistici sono già una
realtà quotidiana, e tuttavia ci sono solo 3,5 milioni di autovetture per 18
milioni di abitanti. Se avessimo noi questo tasso di motorizzazione privata, le
nostre metropoli sarebbero delle grandi isole pedonali. Cina e India non
accettano di essere additate come i "principali sospetti" per il
terremoto inflazionistico che sconvolge i mercati di tutte le materie prime.

Un
capolavoro d’ipocrisia è andato in scena il primo giorno a Toyako con
l’Africa-Day: la decisione di aprire il G8 discutendo con i Paesi poveri la
crisi alimentare di cui sono le vittime più vulnerabili. Molti Stati africani
hanno classi dirigenti disastrose; non così ingenue, però da non aver colto una
singolare coincidenza: ci siamo improvvisamente ricordati di loro da quando
sono attratti verso la sfera d’influenza del neo-impero cinese. Dal Sudan allo
Zimbabwe, le dittature criminali che fanno notizia sono quelle che hanno
stretto maggiori rapporti economici, politici e militari con Pechino. La lista
di aguzzini dei popoli africani è un po’ più lunga. Si parla meno di quelli che
restano vassalli di Washington, Londra o Parigi. Quando i leader del G8
discutono i terribili effetti del caro-cibo, nella lista delle cause rispuntano
regolarmente i "forsennati" aumenti dei consumi alimentari asiatici.
Guai però a toccare i sussidi per il bioetanolo su cui Obama e McCain si
giocano i voti dei farmers nel Midwest. E’ sparita dall’orizzonte la famigerata
politica agricola comunitaria, quasi che non esistesse più. Invece continua ad
assorbire quasi metà dell’intero bilancio dell’Unione europea. La Pac resta una
politica protezionista con forti effetti distorsivi sui mercati mondiali e i
flussi di approvvigionamento. E’ stata storicamente un ostacolo al decollo economico
africano; una barriera contro l’accesso dei produttori più poveri ai
consumatori europei. "L’uomo della rottura", Nicolas Sarkozy, appena
divenuto presidente ha difeso lo status quo agricolo, una rendita di cui la
Francia è la principale beneficiaria. I leader del G8 sembrano davvero non
capirlo, anche se i numeri parlano da soli: le politiche del G8 sui
biocarburanti rappresentano il 75% del problema, eppure nella dichiarazione
finale i leader li hanno menzionati appena.
La Banca Mondiale nel suo
rapporto
A Note on rising food prices(8
aprile 2008), diffuso dal

quotidiano inglese The Guardian,
attribuisce il 75% dell’aumento dei prezzi dei cereali alla richiesta di
biocarburanti. Intanto i
prezzi del cibo sono cresciuti dell’83% rispetto al 2005 e hanno costretto 100
milioni di persone a vivere con meno di un dollaro il giorno.
Tra
i punti principali della dichiarazione vi sono
un partenariato globale con le Nazioni
Unite e altre istituzioni internazionali per sostenere i
piani a sostegno del cibo e
dell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo. Il partenariato prevede
anche l’elaborazione di
un’analisi scientifica. Si fa menzione di un
inversione di tendenza
della diminuzione dell’aiuto in agricoltura. Non si fanno però cifre. Seguono
inoltre gli annunci della creazione di un Gruppo di Esperti del G8 per
sostenere il neonato Panel di alto livello per la crisi alimentare delle
Nazioni Unite, dell’assicurazione di compatibilità della produzione sostenibile
di biocarburanti con la
sicurezza
alimentare e dell’accelerazione dello sviluppo di biocarburanti di seconda
generazione.
I numeri della crisi ci dicono che un Suv
alimentato a etanolo ricavato dal mais potrebbe nutrire una persona per un
anno.
Le
popolazioni meno abbienti hanno speso a oggi almeno metà del loro reddito per
acquistare cibo.

Nell’ultimo vertice il tentativo dei leader del G8 di fare marcia
indietro sulle promesse riguardanti l’aiuto pubblico allo
sviluppo (APS) ha avuto un
effetto boomerang.  A due anni dalla
scadenza prevista nel 2010, i leader
del G8 devono ora fornire nuove risorse per un
totale di 50 miliardi di dollari in più l’anno, come si erano
impegnati a fare a Gleneagles.
Il mondo prende queste promesse sul serio, anche se i leader del G8 non fanno
lo stesso. 25 miliardi sono spiccioli per gli otto grandi, ma per le
popolazioni dell’Africa possono significare un futuro migliore.
Ora grava sull’Italia una
duplice responsabilità: la prima è di dimostrare la propria affidabilità poiché
membro europeo del G8. Dei 50 miliardi di dollari in più l’anno, 40 proviene
dall’Europa.
L’Italia
gioca perciò un ruolo decisivo nel mantenere questo impegno. La seconda è di
aumentare in modo consistente
l’APS italiano, che dovrebbe arrivare allo 0,51% del PIL entro il 2010,
mentre è ora fermo allo 0,19%.
Al G8 della Maddalena, l’anno prossimo, l’Italia sarà chiamata ad
assumere la leadership su
entrambi i fronti.
E’ stato ripresentato l’impegno preso
a Gleneagles tre anni fa di fornire nuovi aiuti nella misura di 50miliardi di
dollari in più all’anno entro il 2010. Metà di questa cifra è destinata
all’Africa. Non si
dice
nulla, però, sui passi da fare per imprimere un’inversione di tendenza al
livello globale
degli
aiuti, che stanno scendendo dal 2006.
Il comunicato finale diffuso dal G8 specifica
che i 60 miliardi di dollari, promessi a
Heiligendamm per le malattie infettive e la
salute, saranno stanziati in un periodo di 5 anni.
Distribuiti su quest’arco
temporale, i 60 miliardi di dollari rappresentano, nella migliore delle
ipotesi, un aumento minimo
degli attuali aiuti in ambito sanitario, se non addirittura una
diminuzione. La
realtà dei fatti ci presenta un altro scenario.
Se il trend attuale
degli aiuti rimarrà invariato, i leader del G8 non manterranno le loro
promesse e si produrrà un buco
di 30 miliardi di dollari. Questo potrebbe costare la vita a 5
milioni di persone, al ritmo
di 30mila bambini il giorno che muore a causa della povertà
estrema. Se si considerano gli
aiuti stanziati dal G8 in termini percentuali, il livello attuale è più basso
di
quanto
era negli anni Sessanta.

Nel 2007, gli otto grandi hanno stanziato il 14,1% in meno per lo
sviluppo rispetto al 2006.
Gli otto paesi sono riusciti a mobilitare oltre mille miliardi di
dollari per arginare la crisi
finanziaria negli ultimi 8 mesi; eppure non riescono a trovare un
ventesimo di quella cifra per
mantenere le loro promesse di aiuto.

A questo ritmo, entro il 2050 il pianeta sarà già “bruciato” e i
leader G8 di oggi saranno solo un
lontano ricordo. L’appoggio di un modesto
obiettivo sul clima – riduzione delle emissioni del 50%
entro il 2050 – ci lascia con
il 50% di probabilità di un disastro climatico.
Piuttosto che una novità, l’annuncio
finale dei leader G8 rappresenta un altro esempio di
temporeggiamento senza termine,
che non fa nulla per ridurre il rischio affrontato oggi da milioni di
persone povere. Attingere le risorse per i
Fondi d’investimento nel Clima amministrati dalla Banca Mondiale
dall’Aiuto pubblico allo
Sviluppo (APS), quando i livelli di aiuto globale stanno diminuendo invece di
aumentare, è palesemente
ingiusto. Ogni dollaro che è dirottato all’adattamento ai
cambiamenti climatici è un
dollaro sottratto ai farmaci essenziali, ai libri di testo e ad altri fattori
cruciali di sviluppo. I
punti principali del comunicato sono il d
imezzamento delle emissioni di
gas serra entro il 2050, senza però alcuna indicazione
dell’anno di riferimento. I 6 miliardi di dollari
promessi per i Fondi d’investimento nel Clima amministrati dalla Banca
Mondiale saranno attinti
dall’APS globale mentre non vi è stato nessun accordo su quando le emissioni
raggiungeranno il culmine e quando cominceranno a scendere. Non è stato
stabilito nessun target a medio termine sulla riduzione delle emissioni, ma
soltanto un vago
traguardo. Lo
stato attuale del Pianeta ci raccomanda che
per evitare conseguenze
catastrofiche, le emissioni globali devono raggiungere il loro picco
entro il 2015 per poi ridursi
di almeno l’80% rispetto alla quantità emessa nel 1990 entro il
2050. Nei paesi ricchi inoltre le emissioni
devono ridursi del 25-40% rispetto alla quantità emessa nel
1990 entro il 2020 mentre per
l’adattamento al mutamento climatico dei paesi in via di sviluppo, si stima che
sia necessario tra i 50 e gli 86 miliardi di dollari l’anno.
Cina e India hanno guidato l’opposizione dei paesi emergenti alla proposta
degli otto paesi più industrializzati a ridurre del 50% le emissioni nocive
entro il 2050. E, in qualche modo, leggendo i punti del comunicato, gli
emergenti l’hanno spuntata. All’incontro hanno partecipato i leader del G8
(Usa, Russia, Francia, Germania, Italia, Giappone, Canada, Gb) e quelli di
Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica, Australia, Indonesia e Corea del Sud
per discutere come combattere l’effetto serra. Un "otto più otto",
dunque che, però, sembra aver partorito un "topolino" ambientale. Nella
dichiarazione si è infine sottolineata la volontà di "continuare a
lavorare insieme per rafforzare la convenzione di Bali" e di adottare
successive decisioni alla prossima convenzione di Copenaghen del novembre 2009,
che dovrà disegnare il post – Kyoto.  Vedremo.                                                                                                                             

Altra
caratteristica non meno importante dell’ultimo vertice in Giappone è stata l’assenza
di un padrone di casa. Il governo giapponese è stato un fantasma. Eppure il
Giappone resta una grande potenza tecnologica, all’avanguardia nel risparmio
energetico: è il Paese che consuma meno petrolio in proporzione al suo Pil. Non
a caso è l’invasione della Toyota Prius ibrida in California ad aver segnato la
fine dell’Hummer (il blindato da combattimento con cui le mamme di Beverly
Hills accompagnavano i bimbi a scuola). Per capire le radici della carenza di
leadership nipponica basta osservare che a Toyako i nostri cellulari non
funzionano. Il Giappone è l’unico Paese, con la Corea del Nord e la Birmania,
dove è inutile portarsi un telefonino europeo, americano o cinese. Rimane
pervicacemente protezionista, mantiene mille barriere invisibili contro gli
investimenti stranieri, cioè contro la concorrenza. Nell’attuale crisi di
consenso verso la globalizzazione, la lezione del Sol levante è chiara:
quindici anni di depressione economica sono il bilancio di una mentalità da fortezza
insulare.

L’attenzione
del mondo si sposta adesso sull’Italia, che a gennaio assumerà la presidenza
del G8. Sulla strada che conduce al G8 italiano, saranno tuttavia diversi gli
appuntamenti in cui l’Italia potrà dimostrare la sua volontà.
Mantenere gli impegni sottoscritti in varie sedi internazionali,
è un obiettivo a portata di mano. Per rispettare le promesse fatte in sede di
Unione Europea, infatti, l’Italia dovrebbe stanziare 6,403 miliardi di euro entro il 2010, pari allo
0,51% del PIL (112 euro per
abitante). Meno della metà di quanto gli
italiani spendono in un anno in
calzature° (15,338 miliardi di euro, 260 euro per abitante); molto meno di quanto spendiamo per andare dal barbiere e dal parrucchiere (10,
947 miliardi
, 185 euro
per abitante); circa un miliardo di euro in meno della spesa annuale in
acque minerali, bevande gassate e succhi
di frutta
(7,849 miliardi di euro, 127 euro per abitante). In concreto, l’Italia dovrebbe
aumentare l’Aps di
3,932 miliardi
di euro entro il 2010
,
avendo stanziato finora 2,471 miliardi di euro, pari allo 0,19% del PIL. Una
cifra di poco superiore a quanto gli italiani spendono ogni anno per acquistare
tessuti e biancheria per le loro case (3.165milioni di euro, 54 euro per
abitante). I prossimi dodici mesi saranno cruciali per capire quale sarà il
reale impegno dei paesi industrializzati nella lotta alla povertà. Con quale
peso politico si presenterà l’Italia al summit ONU sulla povertà, in programma
a settembre, se nella prossima finanziaria confermerà il taglio dei fondi per
la cooperazione allo sviluppo?
Sì perché l’Italia ha fatto di nuovo marcia
indietro sull’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS). Con il voto sul Decreto di
programmazione economica e finanziaria (Dpef), la
Camera dei deputati e il Senato hanno approvato un
taglio annuale di 170 milioni di euro nel
triennio
2009-2011
. Ci si augura
invece che il governo stanzi nuovi fondi per rispettare gli impegni e
rilanciare il ruolo dell’Italia nella lotta alla povertà. Spetta all’Italia,
infatti, poiché presidente di turno del G8, dare l’esempio agli altri paesi. Ad
esempio, durante il G8 giapponese, il presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi ha annunciato che l’Italia stanzierà 1,57 miliardi di euro per la salute
globale nell’arco di 5 anni, ma non è ancora chiaro da dove proverrà questa
somma.                                                                                                                     


° Dati riferiti al 2006, Fonte Confcommercio, Rapporto Consumi, gennaio
2008.

*Formatore alla Nonviolenza                                          

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Verso il G8 in Italia

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VERSO IL G8 IN ITALIA

Marco Antonio Sodi*

Agosto 2008


Il G8, che allora era il Gruppo dei Sei, nacque a metà degli anni Settanta come
risposta dei maggiori paesi industrializzati al primo choc petrolifero,
l’embargo dell’Opec durante la guerra del Kippur.
Più di trent’anni dopo questo embrione di governo globale si ritrova alla casella
di partenza.
E’ di nuovo alle prese con una gravissima crisi energetica, che propaga il
virus dell’inflazione su tutto il pianeta, senza aver fatto passi in avanti per
ridurre la nostra dipendenza dagli idrocarburi. L’agenda dei temi che hanno
dominato l’ultimo vertice sull’isola di Hokkaido è la fotografia di un
monumentale fallimento. La mancanza di una politica per il risparmio energetico
e la diversificazione delle fonti ci presentano il conto. Negli Stati Uniti la
General Motors è sull’orlo della bancarotta e la sua capitalizzazione di Borsa
è stata superata da una catena di caffè (Starbucks). Il crollo dell’industria
automobilistica nel Paese più motorizzato del mondo è uno dei segnali di
collasso di uno stile di vita e un modello di consumi insostenibile. American
Airlines e United, le due più grandi compagnie aeree, stanno licenziando
migliaia di dipendenti. Insieme con l’era dei Suv tramonta anche il periodo in
cui gli americani prendevano l’aereo come un autobus. Vengono al pettine i nodi
del "ventennio sprecato": a iniziare dalla presidenza di George Bush
padre, l’America ha rinunciato a essere il laboratorio di una nuova modernità,
ha scartato le strade per creare ricchezza senza distruggere le risorse
naturali del pianeta. I risparmi energetici che ci furono dopo lo choc degli
anni Settanta, sono stati annullati dagli anni Novanta a oggi. Nello stesso
momento in cui il petrolio è giunto a 145 dollari a barile, George Bush è
andato a Toyako a sostenere due posizioni inconciliabili. Da una parte è stato contrario
ad allargare in tempi rapidi il G8 per includervi Cina e India. D’altra parte
lui stesso ha ammonito che un’azione seria contro il cambiamento climatico è
impossibile senza coinvolgere Cina e India, i nuovi giganti anche
nell’emissione di Co2. Le potenze asiatiche hanno reagito con fastidio. Con
appena il 4% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti continuano a consumare
un quarto di tutto il petrolio. A Pechino, la città con il più alto reddito pro
capite della Repubblica Popolare, gli ingorghi automobilistici sono già una
realtà quotidiana, e tuttavia ci sono solo 3,5 milioni di autovetture per 18
milioni di abitanti. Se avessimo noi questo tasso di motorizzazione privata, le
nostre metropoli sarebbero delle grandi isole pedonali. Cina e India non
accettano di essere additate come i "principali sospetti" per il
terremoto inflazionistico che sconvolge i mercati di tutte le materie prime.

Un
capolavoro d’ipocrisia è andato in scena il primo giorno a Toyako con
l’Africa-Day: la decisione di aprire il G8 discutendo con i Paesi poveri la
crisi alimentare di cui sono le vittime più vulnerabili. Molti Stati africani
hanno classi dirigenti disastrose; non così ingenue, però da non aver colto una
singolare coincidenza: ci siamo improvvisamente ricordati di loro da quando
sono attratti verso la sfera d’influenza del neo-impero cinese. Dal Sudan allo
Zimbabwe, le dittature criminali che fanno notizia sono quelle che hanno
stretto maggiori rapporti economici, politici e militari con Pechino. La lista
di aguzzini dei popoli africani è un po’ più lunga. Si parla meno di quelli che
restano vassalli di Washington, Londra o Parigi. Quando i leader del G8
discutono i terribili effetti del caro-cibo, nella lista delle cause rispuntano
regolarmente i "forsennati" aumenti dei consumi alimentari asiatici.
Guai però a toccare i sussidi per il bioetanolo su cui Obama e McCain si
giocano i voti dei farmers nel Midwest. E’ sparita dall’orizzonte la famigerata
politica agricola comunitaria, quasi che non esistesse più. Invece continua ad
assorbire quasi metà dell’intero bilancio dell’Unione europea. La Pac resta una
politica protezionista con forti effetti distorsivi sui mercati mondiali e i
flussi di approvvigionamento. E’ stata storicamente un ostacolo al decollo economico
africano; una barriera contro l’accesso dei produttori più poveri ai
consumatori europei. "L’uomo della rottura", Nicolas Sarkozy, appena
divenuto presidente ha difeso lo status quo agricolo, una rendita di cui la
Francia è la principale beneficiaria. I leader del G8 sembrano davvero non
capirlo, anche se i numeri parlano da soli: le politiche del G8 sui
biocarburanti rappresentano il 75% del problema, eppure nella dichiarazione
finale i leader li hanno menzionati appena.
La Banca Mondiale nel suo
rapporto
A Note on rising food prices(8
aprile 2008), diffuso dal

quotidiano inglese The Guardian,
attribuisce il 75% dell’aumento dei prezzi dei cereali alla richiesta di
biocarburanti. Intanto i
prezzi del cibo sono cresciuti dell’83% rispetto al 2005 e hanno costretto 100
milioni di persone a vivere con meno di un dollaro il giorno.
Tra
i punti principali della dichiarazione vi sono
un partenariato globale con le Nazioni
Unite e altre istituzioni internazionali per sostenere i
piani a sostegno del cibo e
dell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo. Il partenariato prevede
anche l’elaborazione di
un’analisi scientifica. Si fa menzione di un
inversione di tendenza
della diminuzione dell’aiuto in agricoltura. Non si fanno però cifre. Seguono
inoltre gli annunci della creazione di un Gruppo di Esperti del G8 per
sostenere il neonato Panel di alto livello per la crisi alimentare delle
Nazioni Unite, dell’assicurazione di compatibilità della produzione sostenibile
di biocarburanti con la
sicurezza
alimentare e dell’accelerazione dello sviluppo di biocarburanti di seconda
generazione.
I numeri della crisi ci dicono che un Suv
alimentato a etanolo ricavato dal mais potrebbe nutrire una persona per un
anno.
Le
popolazioni meno abbienti hanno speso a oggi almeno metà del loro reddito per
acquistare cibo.

Nell’ultimo vertice il tentativo dei leader del G8 di fare marcia
indietro sulle promesse riguardanti l’aiuto pubblico allo
sviluppo (APS) ha avuto un
effetto boomerang.  A due anni dalla
scadenza prevista nel 2010, i leader
del G8 devono ora fornire nuove risorse per un
totale di 50 miliardi di dollari in più l’anno, come si erano
impegnati a fare a Gleneagles.
Il mondo prende queste promesse sul serio, anche se i leader del G8 non fanno
lo stesso. 25 miliardi sono spiccioli per gli otto grandi, ma per le
popolazioni dell’Africa possono significare un futuro migliore.
Ora grava sull’Italia una
duplice responsabilità: la prima è di dimostrare la propria affidabilità poiché
membro europeo del G8. Dei 50 miliardi di dollari in più l’anno, 40 proviene
dall’Europa.
L’Italia
gioca perciò un ruolo decisivo nel mantenere questo impegno. La seconda è di
aumentare in modo consistente
l’APS italiano, che dovrebbe arrivare allo 0,51% del PIL entro il 2010,
mentre è ora fermo allo 0,19%.
Al G8 della Maddalena, l’anno prossimo, l’Italia sarà chiamata ad
assumere la leadership su
entrambi i fronti.
E’ stato ripresentato l’impegno preso
a Gleneagles tre anni fa di fornire nuovi aiuti nella misura di 50miliardi di
dollari in più all’anno entro il 2010. Metà di questa cifra è destinata
all’Africa. Non si
dice
nulla, però, sui passi da fare per imprimere un’inversione di tendenza al
livello globale
degli
aiuti, che stanno scendendo dal 2006.
Il comunicato finale diffuso dal G8 specifica
che i 60 miliardi di dollari, promessi a
Heiligendamm per le malattie infettive e la
salute, saranno stanziati in un periodo di 5 anni.
Distribuiti su quest’arco
temporale, i 60 miliardi di dollari rappresentano, nella migliore delle
ipotesi, un aumento minimo
degli attuali aiuti in ambito sanitario, se non addirittura una
diminuzione. La
realtà dei fatti ci presenta un altro scenario.
Se il trend attuale
degli aiuti rimarrà invariato, i leader del G8 non manterranno le loro
promesse e si produrrà un buco
di 30 miliardi di dollari. Questo potrebbe costare la vita a 5
milioni di persone, al ritmo
di 30mila bambini il giorno che muore a causa della povertà
estrema. Se si considerano gli
aiuti stanziati dal G8 in termini percentuali, il livello attuale è più basso
di
quanto
era negli anni Sessanta.

Nel 2007, gli otto grandi hanno stanziato il 14,1% in meno per lo
sviluppo rispetto al 2006.
Gli otto paesi sono riusciti a mobilitare oltre mille miliardi di
dollari per arginare la crisi
finanziaria negli ultimi 8 mesi; eppure non riescono a trovare un
ventesimo di quella cifra per
mantenere le loro promesse di aiuto.

A questo ritmo, entro il 2050 il pianeta sarà già “bruciato” e i
leader G8 di oggi saranno solo un
lontano ricordo. L’appoggio di un modesto
obiettivo sul clima – riduzione delle emissioni del 50%
entro il 2050 – ci lascia con
il 50% di probabilità di un disastro climatico.
Piuttosto che una novità, l’annuncio
finale dei leader G8 rappresenta un altro esempio di
temporeggiamento senza termine,
che non fa nulla per ridurre il rischio affrontato oggi da milioni di
persone povere. Attingere le risorse per i
Fondi d’investimento nel Clima amministrati dalla Banca Mondiale
dall’Aiuto pubblico allo
Sviluppo (APS), quando i livelli di aiuto globale stanno diminuendo invece di
aumentare, è palesemente
ingiusto. Ogni dollaro che è dirottato all’adattamento ai
cambiamenti climatici è un
dollaro sottratto ai farmaci essenziali, ai libri di testo e ad altri fattori
cruciali di sviluppo. I
punti principali del comunicato sono il d
imezzamento delle emissioni di
gas serra entro il 2050, senza però alcuna indicazione
dell’anno di riferimento. I 6 miliardi di dollari
promessi per i Fondi d’investimento nel Clima amministrati dalla Banca
Mondiale saranno attinti
dall’APS globale mentre non vi è stato nessun accordo su quando le emissioni
raggiungeranno il culmine e quando cominceranno a scendere. Non è stato
stabilito nessun target a medio termine sulla riduzione delle emissioni, ma
soltanto un vago
traguardo. Lo
stato attuale del Pianeta ci raccomanda che
per evitare conseguenze
catastrofiche, le emissioni globali devono raggiungere il loro picco
entro il 2015 per poi ridursi
di almeno l’80% rispetto alla quantità emessa nel 1990 entro il
2050. Nei paesi ricchi inoltre le emissioni
devono ridursi del 25-40% rispetto alla quantità emessa nel
1990 entro il 2020 mentre per
l’adattamento al mutamento climatico dei paesi in via di sviluppo, si stima che
sia necessario tra i 50 e gli 86 miliardi di dollari l’anno.
Cina e India hanno guidato l’opposizione dei paesi emergenti alla proposta
degli otto paesi più industrializzati a ridurre del 50% le emissioni nocive
entro il 2050. E, in qualche modo, leggendo i punti del comunicato, gli
emergenti l’hanno spuntata. All’incontro hanno partecipato i leader del G8
(Usa, Russia, Francia, Germania, Italia, Giappone, Canada, Gb) e quelli di
Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica, Australia, Indonesia e Corea del Sud
per discutere come combattere l’effetto serra. Un "otto più otto",
dunque che, però, sembra aver partorito un "topolino" ambientale. Nella
dichiarazione si è infine sottolineata la volontà di "continuare a
lavorare insieme per rafforzare la convenzione di Bali" e di adottare
successive decisioni alla prossima convenzione di Copenaghen del novembre 2009,
che dovrà disegnare il post – Kyoto.  Vedremo.                                                                                                                             

Altra
caratteristica non meno importante dell’ultimo vertice in Giappone è stata l’assenza
di un padrone di casa. Il governo giapponese è stato un fantasma. Eppure il
Giappone resta una grande potenza tecnologica, all’avanguardia nel risparmio
energetico: è il Paese che consuma meno petrolio in proporzione al suo Pil. Non
a caso è l’invasione della Toyota Prius ibrida in California ad aver segnato la
fine dell’Hummer (il blindato da combattimento con cui le mamme di Beverly
Hills accompagnavano i bimbi a scuola). Per capire le radici della carenza di
leadership nipponica basta osservare che a Toyako i nostri cellulari non
funzionano. Il Giappone è l’unico Paese, con la Corea del Nord e la Birmania,
dove è inutile portarsi un telefonino europeo, americano o cinese. Rimane
pervicacemente protezionista, mantiene mille barriere invisibili contro gli
investimenti stranieri, cioè contro la concorrenza. Nell’attuale crisi di
consenso verso la globalizzazione, la lezione del Sol levante è chiara:
quindici anni di depressione economica sono il bilancio di una mentalità da fortezza
insulare.

L’attenzione
del mondo si sposta adesso sull’Italia, che a gennaio assumerà la presidenza
del G8. Sulla strada che conduce al G8 italiano, saranno tuttavia diversi gli
appuntamenti in cui l’Italia potrà dimostrare la sua volontà.
Mantenere gli impegni sottoscritti in varie sedi internazionali,
è un obiettivo a portata di mano. Per rispettare le promesse fatte in sede di
Unione Europea, infatti, l’Italia dovrebbe stanziare 6,403 miliardi di euro entro il 2010, pari allo
0,51% del PIL (112 euro per
abitante). Meno della metà di quanto gli
italiani spendono in un anno in
calzature° (15,338 miliardi di euro, 260 euro per abitante); molto meno di quanto spendiamo per andare dal barbiere e dal parrucchiere (10,
947 miliardi
, 185 euro
per abitante); circa un miliardo di euro in meno della spesa annuale in
acque minerali, bevande gassate e succhi
di frutta
(7,849 miliardi di euro, 127 euro per abitante). In concreto, l’Italia dovrebbe
aumentare l’Aps di
3,932 miliardi
di euro entro il 2010
,
avendo stanziato finora 2,471 miliardi di euro, pari allo 0,19% del PIL. Una
cifra di poco superiore a quanto gli italiani spendono ogni anno per acquistare
tessuti e biancheria per le loro case (3.165milioni di euro, 54 euro per
abitante). I prossimi dodici mesi saranno cruciali per capire quale sarà il
reale impegno dei paesi industrializzati nella lotta alla povertà. Con quale
peso politico si presenterà l’Italia al summit ONU sulla povertà, in programma
a settembre, se nella prossima finanziaria confermerà il taglio dei fondi per
la cooperazione allo sviluppo?
Sì perché l’Italia ha fatto di nuovo marcia
indietro sull’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS). Con il voto sul Decreto di
programmazione economica e finanziaria (Dpef), la
Camera dei deputati e il Senato hanno approvato un
taglio annuale di 170 milioni di euro nel
triennio
2009-2011
. Ci si augura
invece che il governo stanzi nuovi fondi per rispettare gli impegni e
rilanciare il ruolo dell’Italia nella lotta alla povertà. Spetta all’Italia,
infatti, poiché presidente di turno del G8, dare l’esempio agli altri paesi. Ad
esempio, durante il G8 giapponese, il presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi ha annunciato che l’Italia stanzierà 1,57 miliardi di euro per la salute
globale nell’arco di 5 anni, ma non è ancora chiaro da dove proverrà questa
somma.                                                                                                                     


° Dati riferiti al 2006, Fonte Confcommercio, Rapporto Consumi, gennaio
2008.

*Formatore alla Nonviolenza                                          

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2 giugno 2008 tutt@ a Napoli: “basta basi, basta guerre”

Manifestazione nazionale contro le basi militari e contro la guerra permanente:

Appello per una manifestazione nazionale il 2 giugno a Napoli

 

 

 

 

 Per aderire:     http://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/indices/index_55.html

 
 Portaerei,
cacciabombardieri, sottomarini, aerei, elicotteri, missili, bombe,
macchine di morte di ogni specie possibile passano e stazionano nelle
installazioni militari sparse sul territorio italiano.
14 maggio 2008 – Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione della Campania

In Italia vi sono oltre 100 basi ed
installazioni militari che vanno da Bolzano a Lampedusa. Queste
strutture non servono a difendere la popolazione da attacchi esterni
ma, invece, costituiscono un grave pericolo per la sicurezza dei
cittadini sottraendo spazi alla vita civile ed investendoli per la
guerra permanente.

Portaerei, cacciabombardieri,
sottomarini, aerei, elicotteri, missili, bombe, macchine di morte di
ogni specie possibile passano e stazionano nelle installazioni
militari. Senza trascurare il devastante impatto ambientale che la
presenza di tali armi determina, partecipiamo tutti, senza volerlo,
alla guerra.

Abbiamo detto NO al Dal Molin e
continueremo a dirlo, ma lo stesso vale per il resto del territorio
italiano, orami ricoperto di basi e prima linea della guerra globale.

Proponiamo che il 2 giugno abbia luogo a Napoli una manifestazione nazionale contro le basi militari.

Perché a Napoli?

Napoli è una città invasa da strutture
militari, e uno dei principali porti per sostenere i conflitti in Medio
Oriente e non solo: qui si è trasferito il comando di tutta la Marina
Militare statunitense, per il controllo di Europa, Asia (Medio Oriente)
e Africa. Questa città è divenuta lo snodo del traffico di portaerei,
sottomarini a propulsione nucleare e armamenti di ogni genere.

Perché il 2 Giugno?

Il 2 giugno è la Festa della
Repubblica, e noi vogliamo celebrarla ricordando che l’Italia è e deve
essere uno Stato di Diritto e non può essere rappresentata da una
parata militare.

Per questo il 2 giugno 2008 tutti a Napoli: per dire "basta alle basi, basta alla guerra"

Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione della Campania

Promuovono:
Rete Lilliput (Na),
Asper, Manitese (Na), Donne in nero (Na), PeaceLink (Campania), Un
ponte per…(Na), Sinistra Critica (Na), Comunità per lo sviluppo umano
(Na), Assopace (Na), Pax Christi (Na), Scuola di Pace (Na), Attac (Na)

Aderiscono:
Centro Gandhi, Donne in
Nero, Un ponte Per…, La Comunità per lo sviluppo umano, PeaceLink,
Assise di Napoli e del Mezzogiorno d’Italia, Amici di Beppe Grillo
(Na), Socialismo Rivoluzionario (Na), FGCI (Na), PdCI (Na), PRC (Na),
Giovani Comunisti (Na), Federazione Campana RdB/CUB, Cobas (Na),
Associazione 3 febbraio (Na), MEDiterranean MEDIA

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Bush 11-6 :Ospite non gradito

13/05/2008
I NO WAR ANNUNCIANO MANIFESTAZIONE CONTRO LA VISITA DI BUSH A ROMA

           

 

 (RCA)
Roma, 12/5/08. Mercoledi 11 giugno il presidente degli Stati Uniti
George Bush sarà a Roma per incontrare il nuovo premier Berlusconi –
suo fedelissimo alleato – e il Pontefice. Le organizzazioni del
movimento No War – coalizzatesi nel Patto permanente contro la guerra –
hanno già annunciato che saranno in piazza per riaffermare che per loro
Bush è "un ospite non gradito". Il Patto contro la guerra, tra l’altro,
è sorto proprio a seguito della manifestazione del 9 giugno dello
scorso anno contro la precedente visita di Bush a Roma, una
manifestazione che vide da una parte decine di migliaia di persone in
piazza convocati dai movimenti No War e dall’altra il flop della
manifestazione alternativa convocata di partiti della futura sinistra
arcobaleno usciti demoliti dalle ultime elezioni.
I No War danno
indicazioni per un corteo ed hanno già richiesto alla Questura di Roma
Piazza della Repubblica (Il percorso dettagliato sarà concordato nei
prossimi giorni) e invitano tutti coloro che non potranno partecipare
alla manifestazione dell’11 giugno a Roma essendo giorno lavorativo, di
organizzare contenporaneamente manifestazioni sotto le sedi dei
consolati e delle basi militari USA nelle varie città italiane.
Per
sabato 24 maggio il Patto contro la guerra ha convocato un incontro
nazionale a Roma in cui si analizzeranno gli "scenari della guerra
globale e ruolo dell’Italia". In quella sede si discuterà anche dei
preparativi della manifestazione contro la visita di Bush a Roma. Il 2
giugno è prevista invece una manifestazione a Napoli per lo
smantellamento delle basi militari USA/NATO nel paese. (MS)

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difendi Rebeldia

 

 

SABATO 07 06 2008

DIFENDI REBELDIA, L’ALTRA CITTA’ CHE R-ESISTE

MANIFESTAZIONE CITTADINA

Concentramento ore 17:30 Piazza Sant’Antonio – conclusione in Piazza
Carrara con concerto degli Assalti Frontali

Materiale di promozione della manifestazione: spot videobannerAderisci alla manifestazione!

Il nostro appello è rivolto a tutte e tutti coloro che credono e lavorano
quotidianamente perché un’altra città sia veramente possibile.

Il nostro appello è rivolto a tutte e tutti coloro che non sono disposti ad
accettare quella restrizione della democrazia e dei diritti, che nel nostro
paese e nella nostra città si vuole realizzare.
Il nostro appello è rivolto a tutte e tutti coloro che credono nella
partecipazione dal basso, nel quotidiano fare società, contro ogni guerra
globale permanente, contro il predominio del mercato, contro il razzismo, contro
la precarietà del lavoro e della vita, per il rispetto dell’equità sociale, dei
diritti e della salvaguardia ambientale.
Il nostro appello è rivolto a tutte e tutti coloro che in questi anni hanno
lavorato con il Progetto Rebeldìa, l’hanno intercettato, hanno partecipato ad
iniziative ed assemblee, fatto spettacoli e concerti, o sono semplicemente
venuti a trascorrere una serata .
L’amministrazione comunale di fatto vuole cancellare questa esperienza e in
più di un anno e mezzo non ha mai dato nessuna risposta alle nostre richieste di
integrazione nell’area di via Battisti per garantire la continuità, l’unità, la
stabilità ed il radicamento territoriale delle nostre attività. Si tratta,
dunque, di un problema di volontà politica, di come si intende il concetto
stesso di riqualificazione di un’area della città, di decidere su quali progetti
si vuole investire. In questi giorni, inoltre, si sta cercando di provare a
stringere il cerchio contro di noi e ci è stata recapita una lettera da parte
della Cpt proprietaria dell’area in cui si richiede di lasciare immediatamente
lo stabile: in caso contrario si provvederà con ogni mezzo necessario alla
liberazione della stessa.
Per questo abbiamo deciso di convocare una grande manifestazione cittadina
per il 7 giugno a difesa del Progetto Rebeldìa. Il Progetto Rebeldìa non è solo
una rete di 27 associazioni, non è solo uno spazio sociale per decine di
attività, un luogo di incontro e produzione politica e culturale per centinaia
di soggetti. Il Progetto Rebeldìa è una pratica quotidiana di cittadinanza, uno
spazio pubblico ed includente, un luogo prezioso in una società che divide,
marginalizza e mette in concorrenza. Il Progetto Rebeldìa vive e lavora nel
quartiere della stazione, e qui vogliamo essere integrati, perchè pensiamo di
essere un fattore di riqualificazione fondamentale in un contesto sociale
desertificato, in una zona di frontiera.
Questa manifestazione vuole essere una occasione per l’altra città che non
si piega alle speculazioni edilizie, al lavoro nero, alla repressione nei
confronti dei migranti, per prendere parola, per continuare un cammino. Questa
manifestazione vuole essere l’occasione perché oggi i movimenti e le reti
sociali diffuse in città mandino un messaggio chiaro alla nuova amministrazione
guidata dal sindaco Filippeschi che inneggia alla tolleranza zero, allo sgombero
dei campi rom, al restringimento degli spazi sociali, alla precarietà ed alle
esternalizzazioni dei servizi, alla trasformazione delle grandi aree pubbliche
in residenze di lusso per una Pisa a misura solo di pochi.
Noi pensiamo ad un’altra città fatta di luoghi aperti e corpi liberi di
circolare, dove l’invisibile diventa visibile. E’ questa la città che vogliamo a
fronte di una Pisa sempre più povera nella capacità di garantire realmente
l’accesso ai servizi, alla scuola, alla sanità, alla casa. Non vogliamo una
città in mano agli imprenditori e ai grandi proprietari immobiliari, che rischia
di vedere il suo territorio sempre più devastato. Vogliamo invece una città che
si sviluppa grazie alla partecipazione, una città di tutte e tutti coloro che la
abitano, a cui devono essere riconosciuti uguali diritti nella sostanza oltre
che nella forma. La città che noi stiamo costruendo investe sull’incontrarsi e
mescolarsi delle differenze, capace di rispondere ai bisogni della sua
multiforme cittadinanza; una città generosa delle sue strade e delle sue piazze,
dei suoi mille edifici di proprietà pubblica da sottrarre alla speculazione e
all’incuria, capace di aprire le scuole e le università ai quartieri, impedendo
la costruzione di ghetti e l’innalzarsi di muri tra chi vi abita, lavora,
studia, vive. Una città che pensa il proprio futuro in cui sia riconosciuto che
lo sviluppo culturale e il fermento artistico, necessari per la crescita sociale
e civile di una città e dei suoi cittadini, hanno bisogno di spazi per poter
nascere, crescere e arricchirsi.
Difendere Rebeldìa e vincere la battaglia perché il Progetto rimanga in via
Battisti è l’occasione per tutte e tutti noi per iniziare a costruire questa
città che non c’è.
Difendere Rebeldìa oggi significa schierarsi dalla parte degli ultimi, di
chi non ha riconosciuti i propri diritti e viene sempre più criminalizzato o
marginalizzato nei luoghi di lavoro e per le strade.
La nostra proposta è quella di ripartire dalla manifestazione del 7 giugno
per costruire un’altra idea di città, ripartire da un lavoro nei quartieri a
cominciare da quello dello stazione moltiplicando esperienze come quelle del
Progetto Rebeldìa che lì è e lì pensiamo che debba rimanere.
E’ ora di prendere la parola, è il momento di scendere in piazza,
E’ il nostro tempo, è il tempo di difendere il Progetto Rebeldìa.

Promuove
Progetto Rebeldía: Acklab – Africa Insieme – Babilon-mediateca –
CiboliberoKC – Chicco di senape ­ Ciclofficina – Cinemaltrove ­ Cinematic-
Distretto di Economia Solidale – El Comedor Estudiantil Giordano Liva –
Emergency Pisa – Equilibri Precari – Gruppo d’Acquisto Solidale Pisano –
LIPU-Pisa – Ingegneria Senza Frontiere – Caffetteria Critica Machu Picchu –
Mezclar-Ambulatorio migranti – ¡Mosquito!- Osservatorio Antiproibizionista –
Laboratorio delle disobbedienze Rebeldía – Rebeldía Media Crew –  Rebeltheater –
Scacchi Insorgenti – Gruppo TNT Lavoro non lavoro- Trinacria Gio Family 
Underground Pisa

per leggere i comunicati di adesione, e aderire personalmente o come associazione, clicca qui

 

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Assemblea Rete Semprecontrolaguerra

Do you remember Semprecontrolaguerra?

Firenze, presso l’ Ospitale delle Rifiorenze

17 Maggio 2008

 

     
 

In un momento caratterizzato da profonde contraddizioni e ingiustizie

sociali, gravissime tensioni internazionali e urgenti problemi

ambientali, è necessario ideare e praticare nuovi percorsi di resistenza

e progettazione.

Rete Semprecontrolaguerra ha sognato e definito una propria agenda e

propri metodi che hanno coinvolto e contaminato vari altri soggetti.

Progetti che qualche tempo fa sembrino irrealizzabili ora sono processi

in atto.

Abbiamo cercato di praticare il metodo del consenso che, pur nella sua

complessità, ci ha permesso di sperimentare l’orizzontalità, la

leadership diffusa, i metodi partecipativi. Abbiamo perseguito la

coerenza tra mezzi e fini, tra forma e contenuto; abbiamo imparato a

ragionare collettivamente.

Il modello a "rete", pur nella difficoltà della sua gestione, si è

dimostrato in grado di interpretare il disagio emergente dalla società

civile e di sviluppare nuove prassi e forme di riflessione.

Abbiamo superato la fase della semplice resistenza e siamo stati capaci

di progettualità.

Siamo, di fatto, un soggetto politico che mette in discussione le forme

attuali della politica basata sostanzialmente su un ceto politico

autoreferenziale e del tutto privo di ricambio, incapace di ascoltare e

dialogare con la società civile.

Ci opponiamo alla società di mercato che riduce persone e cose a pura

merce, alla finanziarizzazione dell’economia, alla crescita illimitata

dove il benessere è misurato unicamente con il PIL, all’uso della

violenza come strumento per dirimere le questioni internazionali e alla

diffusione delle armi, allo sfruttamento indiscriminato delle risorse

naturali (acqua, energia e materia).

Riconfermiamo la nostra prospettiva e il nostro impegno per una politica

orientata al disarmo, per un modello di difesa popolare nonviolenta e

per la gestione nonviolenta dei conflitti.

A Firenze il 17 Maggio prossimo presso L’Ospitale delle Rifiorenze

(Piazza Piattellina, 1) la Rete ti invita a partecipare all’Assemblea

nazionale.

In un momento in cui è abissale la distanza “materiale” tra la società e

l’azione politica, vogliamo ri-cominciare da noi: ci confronteremo non

con un palco, un tavolo di relatori, ma in cerchio, alla pari e dal

basso, con altre persone che a vario titolo si occupano di pace e

disarmo nei movimenti, nella società civile, nelle comunità locali.

Uno spazio aperto che vuole essere un momento di esplorazione delle

risorse, volontà e limiti della Rete, un’opportunità di ragionare

collettivamente per la raccolta di proposte chiare e comprensive che

potranno emergere, il continuo di un percorso già avviato per

l’individuazione e la ricostruzione di strategie di azione efficaci e

consensuali.

Rete Semprecontrolaguerra

*****

L’Assemblea si svolgerà presso l’Ospitale delle Rifiorenze (Piazza

Piattellina 1, Firenze) dalle ore 9,30 e finirà entro le ore 18 per

permettere a chi verrà da più lontano di partecipare fino alla fine dei

lavori.

Comunicheremo a breve tramite mail l’agenda della giornata del 17 Maggio.

Per iscrizioni e prenotazioni, inviare una mail a:

semprecontrolaguerra@tiscali.it

Per maggiori dettagli, puoi consultare: www.firenzenowar2.noblogs.org

Come arrivare all’Ospitale delle Rifiorenze www.firenzeospitale.it

Mappa: www.florencehospitality.org/images/ospitale/Cartina-Ospitale.jpg

Con la sua posizione centrale l’Ostello è facilmente raggiungibile:

Dalla stazione dei Treni

– dalla stazione ferroviaria centrale di S.Maria Novella, sia a piedi,

in poco più di 10 minuti, che in autobus, linee 11-36-37; seconda

fermata in via de’Serragli o bus D; fermata in via San Frediano.

– dalla stazione ferroviaria di Campo di Marte con l’autobus n. 19 fino

alla stazione centrale.

Dall’Aeroporto

Prendere l’autobus n. 62, ogni 25 minuti fra le ore 6 e le ore 22.35,

fino alla stazione centrale.

Dall’Autostrada

Uscire a Firenze Certosa, prendere direzione Porta Romana (Via Senese,

via del Gelsomino, via del Poggio imperiale), arrivare in piazza della

Calza (presso Porta Romana) Parcheggio Oltrarno.

Vitto

Non è prevista la possibilità di mangiare presso la struttura in cui si

svolgerà l’iniziativa, segnaleremo al momento dei locali in zona per il

pranzo.

Alloggio

Non è prevista la possibilità di dormire presso la struttura, quindi

saranno predisposte alcune sistemazioni in case private dei fiorentini.

Chiunque ne avesse il bisogno invii il prima possibile una mail a :

semprecontrolaguerra@tiscali.it

Per contatti

Nei giorni precedenti al seminario:

cell: 328/0339384 e-mail: semprecontrolaguerra@tiscali.it web:

www.firenzenowar2.noblogs.org

durante la giornata di Sabato 17 Maggio:

cell: 338/3092948

*****

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CONTESTAZIONE PER L’ACCENSIONE DELLA FIAMMA OLIMPICA

 

Militanti di Reporters Sans Frontieres cercano di interrompere il discorso inaugurale

segui su:     http://www.rsf.org/

Olimpiadi, accesa la fiaccola

Contestazione durante la cerimonia

 

 

 

 

OLIMPIA-GRECIA La fiamma olimpica è stata accesa. E come era prevedibile la
questione tibetana ha fatto irruzione attraverso le contestazioni nella
cerimonia che si è svolta nell’antico sito di Olimpia. 

 CONTESTAZIONI- A Olimpia la polizia greca ha blindato il sito
archeologico in occasione della cerimonia per l’accensione della
fiaccola, che è avvenuta alle 10,45 italiane con gli specchi ustori al
tempio di Hera a Olimpia. Si temeva infatti un gesto mediatico degli attivisti tibetani davanti a
centinaia di giornalisti e migliaia di persone che hanno seguito la
cerimonia, fatto però che è puntualmente avvenuto. Non erano però
tibetani, bensì rappresentanti di Reporters sans Frontières,
l’associazione che si batte per i diritti della libera stampa, quelli
entrati in azione mentre parlava Liu Qi, presidente del comitato
organizzatore di Pechino 2008. Due gli attivisti in azione, Jean-François Juilliard e Vincent Brossel:
uno ha sventolato una bandiera con i cinque cerchi olimpici a forma di
manette e la scritta «boicottate i Paesi che disprezzano i diritti
umani», l’altro ha cercato di impadronirsi del microfono. Sono stati
subito bloccati dal servizio di sicurezza. Una dozzina di manifestanti
ha poi inscenato una protesta nelle strade di Olimpia. «È triste che
avvengano queste cose», ha dichiarato in seguito Rogge, «almeno però
non si è trattato di manifestazioni violente».

SOSPESA «DIRETTA» – La televisione cinese ha sospeso brevemente
la trasmissione in diretta della cerimonia durante la contestazione. Le
immagini sono state diffuse in leggera differita, nonostante fosse
stata annunciata la «diretta». Il programma si è interrotto per alcuni
secondi, senza alcuna spiegazione, poco dopo l’inizio del discorso di
Liu Qi e sono state mandate in onda immagini di archivio di Olimpia e
di una vecchia torcia olimpica.

LA RICHIESTAUn gruppo di
dissidenti tibetani aveva annunciato che avrebbe inscenato una protesta
durante la cerimonia d’accensione. Tenzin Dorjee, portavoce del gruppo
degli Studenti per un Tibet libero, ha chiesto al Cio di escludere il
Tibet dal percorso della torcia ma le autorità cinesi hanno già fatto
sapere che il percorso stabilito sarà rispettato, compresa la scalata
dell’Everest con la fiaccola olimpica.

 

La contestazione mentre parlava il presidente del Comitato organizzatore di Pechino (da Sky Tg24)

http://www.rainews24.rai.it/video.asp?videoID=4658

 

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Spese militari, è record

Armi per 1.200 miliardi di dollari

Usa in testa, rincorsa di Cina e Russia

 

Il mondo è sempre più imbottito di armi.
Ogni anno i Paesi della Terra spendono oltre 1.200 miliardi di dollari
per mantenere i loro eserciti. La quarta parte di questa cifra, e cioè
300 miliardi di dollari, è investita nell’acquisto di nuovi carri
armati, nuovi aerei sempre più micidiali, nuove diavolerie tecnologiche
con cui gli esseri umani si massacrano. Al crollo dell’impero sovietico
la corsa agli armamenti si fermò. «Gli studi per la produzione di una
nuova generazione di armi—spiega il generale Fabio Mini—furono
abbandonati ». Negli ultimi anni sono ripresi alla grande. A metà
febbraio l’Air Force degli Stati Uniti ha firmato un contratto con la
Boeing per installare sui caccia un raggio laser in grado di annientare
jet nemici. Lavora alla tecnologia laser anche la Northrop Grumman e i
suoi dirigenti ritengono che le armi laser sostituiranno i missili
tattici. «Questo tipo di armi sono già pronte per la battaglia», esulta
Myke Booen, vicepresidente della Raytheon Missile Systems.

Molti progetti sono top secret.
Ma i programmi resi noti sono già sufficientemente impressionanti. Si
parla di armi a microonde, raggi elettromagnetici, armi ad energia
diretta che impiegano alte frequenze in grado di far evaporare i corpi
investiti. La Russia ha sviluppato armi termobariche, un miscuglio di
esplosivi e carburanti realizzato grazie a una manipolazione della
materia a livello atomico. Su impulso di Vladimir Putin, l’industria
della Difesa russa assorbirà quest’anno 40 miliardi di dollari. Ma
siccome Mosca nutre l’ambizione di imporsi di nuovo sullo scacchiere
internazionale, ha preparato un vasto piano da completare entro il 2020
per aerei (fra cui velivoli Stealth, «invisibili»), missili,
sottomarini e armi di nuova generazione. Anche la Cina si è lanciata
nel settore dell’alta tecnologia.

All’inizio di marzo ha annunciato di aver stanziato
per quest’anno 58 miliardi di dollari per spese militari, il 18 per
cento in più rispetto al 2007. «Tuttavia—osserva Giovanni Gasparini,
dell’Iai, Istituto affari internazionali — Russia e Cina non sono in
condizione di competere con gli Stati Uniti, l’unica potenza globale.
La loro tecnologia è indietro di vent’anni, possono giocare solo un
ruolo in ambito regionale ». Difatti l’India, che in passato riempiva
gli arsenali con armamenti di produzione sovietica, si è ritrovata con
mezzi che spesso sono autentici rottami. E ha deciso di
approvvigionarsi sul mercato degli Stati Uniti, dove investirà 45
miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. In più, è pronta a
sborsare 10 miliardi di dollari per l’acquisto di 126 aerei da
combattimento. In un mondo che piange per la crisi economica, il
settore degli armamenti va a gonfie vele. Non solo in America, anche in
Europa. In Italia Finmeccanica, con le sue società satelliti, vanta
floridi bilanci. La ricerca nel campo dei mezzi di distruzione porta
anche benefici. «In passato—dice il generale Mario Arpino,
amministratore delegato di Vitrociset— soluzioni escogitate in campo
militare hanno poi trovato un largo impiego nel settore civile. Oggi
sta avvenendo il contrario: la ricerca civile, soprattutto
nell’elettronica, è sfruttata dai militari».

I più spendaccioni in assoluto rimangono gli Stati Uniti.
Washington dedica il 4,7 per cento del prodotto interno lordo al
settore della Difesa. L’Europa solo l’1,8. Nel 2006 gli Stati Uniti
hanno investito 141 miliardi di euro per gli equipaggiamenti, mentre i
26 Paesi europei messi insieme sono arrivati appena a quota 39 miliardi
di euro. Un divario così alto complica la possibilità di collaborazione
tra occidentali. Se si vuole avere un’idea delle spese che comportano
le Forze armate americane, basta pensare alle portaerei. Washington ne
ha 12, ognuna è come un villaggio di circa 5mila abitanti. L’ultima
arrivata è la Reagan, lunga come tre campi di calcio. Pattugliano tutti
gli oceani, portandosi dietro ognuna una scia di decine di navi di
supporto, un battle group capace di sferrare attacchi su ogni angolo
della Terra.

Con l’uscita di scena di George W. Bush le cose non cambieranno.
Le Forze armate continueranno a ricevere fiumi di dollari se alla Casa
Bianca arriva il repubblicano McCain. Ma anche se diventa presidente un
democratico, perché Hillary Clinton promette di «espandere e
modernizzare il settore militare» e Barack Obama vuole reclutare «65
mila uomini in più per l’esercito e ampliare di 27 mila unità i ranghi
dei marines». Finora i conflitti si sono consumati sulla terra, sui
mari e nei cieli. In un futuro molto prossimo potrebbero investire lo
spazio. Quando il 21 febbraio scorso gli Stati Uniti hanno abbattuto un
loro satellite da ricognizione che era finito fuori controllo, la Cina
e la Russia hanno protestato, accusando gli americani di aver compiuto
quell’operazione solo a scopo sperimentale. Cioè, per verificare se la
loro tecnologia anti- satellite funziona. In effetti ha funzionato. In
caso di guerra, abbattere o semplicemente accecare i satelliti dei
nemici, potrebbe diventare una mossa decisiva.

Marco Nese
23 marzo 2008

Corriere della Sera 

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Le primavere di Mitrovica

Le primavere di Mitrovica

Un racconto in presa diretta degli scontri di lunedì 17 marzo tra i
serbi, le forze di polizia Unmik e i soldati della Kfor. Da un
cooperante italiano che vive in Kosovo da due anni.

Giornata uggiosa quella di lunedì. Mitrovica
si è svegliata sotto un cielo triste, quasi a voler piangere gli ultimi
suoi caduti, quelli degli scontri del 17 marzo di 4 anni fa, quando, a
seguito di alcune sommosse partite da Mitrovica ed estesesi poi in
tutto il Kosovo persero la vita 19 persone e molte case serbe e chiese
ortodosse subirono danni. La simbologia e gli anniversari in questa
parte dei Balcani sono nitidamente vivi e impressi nella memoria della
sua gente, sono tanti infatti gli eventi di rilievo avvenuti in questo
principio di primavera. Dallo scoppio della guerra tanta acqua è
passata sotto il fiume Ibar e Mitrovica ha subito significativi
mutamenti. Tra questi, la divisione ben marcata della città pattugliata
costantemente dalla Kfor, l’interruzione o comunque l’arretramento, dal
2004, del dialogo interetnico avviato da tante organizzazioni dalla
fine della guerra, una ben visibile diffidenza tra le due maggiori
etnie divise dal ponte. Da ultimo, come forma di cambiamento che ha
lasciato traccia indelebile su quelle che sono le relazioni presenti e
future delle due maggiori parti in causa, va annoverata la
dichiarazione unilaterale di indipendenza del governo di Pristina del
17 febbraio 2008, appena un mese fa.

Gli
scontri di lunedì, sebbene avvenuti esattamente 4 anni dopo ed aventi
sempre lo stesso epicentro, Mitrovica, presentano una differenza
sostanziale rispetto al 2004: mentre allora la partita si giocava tutta
tra serbi ed albanesi con Kfor che faceva da arbitro, per una sfida che
per il quieto vivere di tutti, internazionali compresi, ha portato alla
divisione netta della città in due parti, lunedì dalla tribuna gli
albanesi guardavano i due protagonisti, i serbi e la Kfor, contendersi
una partita ben più difficile consumata tutta sull’indipendenza.
Proprio perchè ancora in corso, in quest’ultima sfida i contorni sono
molto più sfumati e meno nitidi. Sicuramente bisognerà attendere i
tempi supplementari prima che la cicatrice dell’indipendenza si possa
rimarginare e assumere una forma compiuta. Non dovrebbe risultare
utopistico parlare oggi di divisione della parte nord dal resto del
Kosovo, e restituirla, con un forte grado di autonomia, alla vecchia
madrepadria. Così come ulteriori e più sanguinosi scontri estesi in
altre zone del Kosovo potrebbero, spingere un consistente numero di
serbi a riparare altrove. Il vaso di pandora è stato appena
scoperchiato: dal 17 febbraio una serie di vicende e ritorsioni serbe
hanno sempre più spinto l’amministrazione Unmik a prendere
provvedimenti e decisioni precise in quella parte nord del Kosovo che
per nove anni l’ha vista latitante. Prima con le proteste lungo il
confine nord, poi con l’entrata, ad insaputa di Unmik, di un treno
proveniente dalla Serbia, poi con la protesta dei poliziotti serbi
allontanatisi dal servizio perchè non riconoscevano la nuova
istituzione che li rappresentava ed infine, venerdì 14 marzo, con
l’occupazione del Palazzo di Giustizia da parte di una cinquantina di
manifestanti serbi che hanno piantato la bandiera serba sul tetto.
Questo per citare i fatti più eclatanti che sembrano portare Unmik a
mostrare una determinazione sempre più forte. Si è arrivati infatti
alla giornata del 15 marzo ed alla secca dichiarazione di Rucker per le
violazioni appena perpetrate dai serbi.

Il
ripristino della legge e dell’ordine richiesto con forza dal
Rappresentante Unmik in Kosovo non lasciava presagire nulla di buono.
Tant’è che alle 5.30 di ieri la polizia Unmik e Kfor, hanno fatto
irruzione nel palazzo occupato hanno arrestato i circa 50 occupanti
serbi. Alle 5.30 del mattino però la nuova partita era appena iniziata
lasciando circa 80 manifestanti serbi feriti, due in maniera grave e
circa 25 tra poliziotti Unmik e soldati Kfor feriti. Fonti Kfor parlano
di tre soldati francesi feriti gravemente la mattina durante le
operazioni di sgombero e di un soldato ucraino, seriamente ferito negli
scontri, che è morto questa mattina. Le continue «forzature» dei serbi
del nord e l’uso di armi automatiche da parte degli stessi in pieno
centro cittadino dovrebbero far riflettere, e non poco, sulla scarsa
presa di Unmik e del suo potere in queste zone durante questi lunghi 9
anni.
Mitrovica, svegliatasi sotto una pioggerella primaverile ha sentito il
boato delle armi. La parte sud della città, quella albanese,
indifferente per quanto stava succedendo oltre il fiume, ma ben
informata dei fatti, si accingeva a riversarsi per strada e nei caffè,
nel mercato di frutta e verdura, nei tanti negozi di telefonia. I serbi
a nord, già dalle otto del mattino scendevano per strada. Tanta era la
rabbia tra i giovani, tanta l’amarezza per questo inaspettato uso della
forza da parte della Kfor. Stojan infatti sosteneva che la ferita del
17 marzo 2008 è molto più profonda rispetto a quella di un mese fa.
«Per l’indipendenza almeno eravamo preparati», ripeteva.

La
folla era in fermento verso le le 12.30. La manifestazione sebbene
programmata per la solita ora, 12.44, rischiava di non tenersi. Tante
erano le voci di dissenso e di confusione. Maxo, gestore del Caffe
Paris diceva che un giornalista italiano era stato spintonato e privato
della sua telecamera. Un suo vicino preoccupato diceva che una persona
serba di trent’anni era stata uccisa. Nonostante gli animi irrigiditi,
la manifestazione si è tenuta lo stesso. Da spettatore, insieme
soltanto a due giornalisti russi, ho avuto modo di vedere non più di
250 persone, tra loro anche molti signori di mezza età, che inveendo
contro gli occupatori e sventolando bandiere serbe hanno marciato
pacificamente fino a raggiungere sul ponte il monumento eretto in onore
dei caduti serbi durante i bombardamenti Nato. La manifestazione, molto
composta, raggiunto il posto è rimasta per più di un minuto in
religioso silenzio commemorando appunto i suoi morti. Un cordone di
persone ai lati della strada, sicuramente per ripararsi dalla pioggia,
seguiva con gli occhi. Tra questi anche due energiche signore che
notando i due giornalisti con la telecamera si sono dirette
immediatamente da loro chiedendogli la nazionalità. Ritornando col
sorriso ad alta voce ripetevano «Russia, Russia». Come per dire sono
nostri amici, non temete.

Dalle due in poi la tensione si è smorzata, la gente ha lasciato
la strada per riempire i bar e commentare ancora una volta l’ennesima
sfida ben riuscita contro le forze di occupazione. La ferità resterà
aperta ancora a lungo ed in discussione ci saranno non soltanto gli
equilibri politico-diplomatici tra le forze occidentali e non, ma anche
la stessa relazione per chi, occupandosi di cooperazione è costretto a
confrontarsi con istituzioni locali serbe ed il mondo
dell’associazionismo. La spaccatura tra i diversi sogetti
istituzionali, da oggi 18 marzo sarà ancora più profonda. Le ricadute
negative di breve periodo saranno tutte per coloro che dovranno
misurarsi con esse. Organizzazioni internazionali e non.

Cooperante italiano, da due anni in Kosovo

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Il «problema tibetano»


Il «problema tibetano»

 

Piero Verni

[19 Marzo 2008]

Le radici della protesta in un articolo di Piero Verni, tibetolo, pubblicato sul sito di Lettera22

In
queste ore nelle strade di Lhasa, pattugliata da oltre 20.000 soldati
cinesi e da una cinquantina di blindati dell’Armata Rossa, decine e
decine di prigionieri politici tibetani sfilano sui carri dell’esercito
di Pechino ammanettati e a testa bassa mentre dagli altoparlanti una
voce metallica intima a quanti non sono stati ancora arrestati di
consegnarsi prima che sia troppo tardi. E sempre in queste ore sono
stati affissi sui muri della cosiddetta Regione Autonoma del Tibet e
delle contee e aree tibetane incorporate nelle province del Sichuan e
del Gansu, manifesti in cui si avverte la popolazione che ogni
assembramento verrà immediatamente sciolto con la forza dalla Polizia
Armata che ha l’ordine di sparare sulla folla.

Questo è la situazione del Tibet odierno, governato da quella Cina
che si sta gioiosamente preparando a celebrare la sua parata olimpica
pronta ad incassare il plauso e la meraviglia del mondo per le sue
conquiste e le sue scintillanti vetrine. Quella Cina autorefenrenziale
che parla di sé come di una “società armoniosa” che grazie al
“socialismo di mercato” è proiettata verso un futuro di superpotenza
economica e grazie alla forza dei suoi muscoli (pochi giorni or sono
Pechino ha aumentato del 18% il suo già oneroso budget per le spese
militari) anche di superpotenza politica.

In un’intervista rilasciata alla giornalista Ursula Gauthier e
pubblicata in gennaio dal settimanale francese le Nouvel Observateur,
il Dalai Lama affermava che nel corso dell’ultimo incontro che i suoi
inviati avevano avuto nel giugno 2007 con alcuni dirigenti cinesi,
questi ultimi avevano “puramente e semplicemente negato l’esistenza di
un problema tibetano”.

Adesso quei dirigenti dovranno ricredersi. Adesso, che a Lhasa
sono esplose incontenibili la rabbia, la frustrazione, il furore delle
donne e degli uomini del Tibet esasperati da oltre cinquant’anni di
giogo coloniale brutale e inflessibile. Adesso, che a Labrang, Ngaba,
Ganja, Machu e in altre località del Tibet storico si susseguono
manifestazioni e proteste invariabilmente represse nel sangue. Adesso,
che ovunque nel mondo si manifesta la disperazione del popolo tibetano.

L’orrore della carneficina di Lhasa. L’orrore delle fotografie dei
cadaveri degli assassinati dalle pallottole cinesi sparate ad altezza
d’uomo. L’orrore dei rastrellamenti, delle incarcerazioni
indiscriminate, delle torture. Tutto questo dimostra che esiste un
problema tibetano. Esiste per Pechino ma esiste anche per la diplomazia
internazionale che fatica a rimanere muta, cieca e sorda (come
certamente vorrebbe) di fronte alla tragedia che si sta consumando sul
Tetto del Mondo.

E il problema tibetano è molto semplice, pur nella sua drammatica
complessità. Il dominio cinese, in oltre sessant’anni di repressioni,
non è riuscito a normalizzare il popolo tibetano né all’interno né
all’esterno del Tibet. Le immagini che in questi giorni stanno
circolando sui circuiti televisivi e sulla Rete, ci fanno vedere come
la protesta sia portata avanti principalmente da giovani e
giovanissimi. Che si tratti di laici o di monaci, si tratta sempre di
persone che non erano nemmeno nate nel 1959. Che nonostante tutta la
retorica e la disinformazione cinese continuano ad essere fedeli
all’identità tibetana e non si piegano al pugno di ferro di Pechino.
Che continuano a sperare e a lottare per un Tibet libero. Per rangzen,
il termine tibetano che designa l’indipendenza così come quello
sanscrito swaraj di gandhiana memoria.
Non a caso “Rise up, resist, return” (Insorgi, Resisti, Ritorna) è lo
slogan principale di quella “Marcia Verso il Tibet” che cinque
organizzazioni della diaspora tibetana hanno fatto partire da
Dharamsala il 10 marzo e che attualmente, dopo un primo stop provocato
dalla polizia indiana che il 13 marzo aveva arrestato i primi cento
marciatori, è ripresa e proprio oggi ha lasciato lo stato indiano
dell’Himachal Pradesh ed è entrata in quello del Punjab puntando verso
Nuova Delhi. Oggi il popolo tibetano sente che l’occasione olimpica
mette come non mai la Repubblica Popolare Cinese sotto i riflettori
dell’opinione pubblica internazionale e questa consapevolezza, insieme
alla sempre più forte disperazione, ha acceso una scintilla che a Lhasa
come a Dharamsala, come in tanti altri luoghi ha convinto i tibetani ad
agire. Credo sia importante sottolineare il peso che proprio la “Marcia
Verso il Tibet” intrapresa dagli esuli in India ha avuto e continua ad
avere per la situazione tibetana. Anche se sono da escludere le
capacità organizzative di cui parlano i cinesi, che accusano la “cricca
del Dalai Lama” di essere la responsabile dell’insurrezione di questi
giorni, è però molto probabile che le notizie della “Marcia” diffuse in
Tibet attraverso un passaparola di telefonate, Sms, Mms, lettere (non
Internet perché in Tibet la comunicazione telematica è strettamente
controllata dall’apparato poliziesco), ascolti collettivi dei programmi
di Radio FreeAsia, siano state per i tibetani una ulteriore spinta a
protestare. E infatti tra il 10 e il 13 marzo, mentre in India la
“Marcia Verso il Tibet” si snodava lungo le strade dell’Himachal
Pradesh, a Lhasa cominciavano a tenersi le prime manifestazioni.
Dapprima sparuti gruppi di monaci poi masse sempre più ingenti di laici
e religiosi, sono scese nelle strade della capitale tibetana per
protestare contro l’occupazione cinese.
Sarà bene ricordarlo. Si è trattato per almeno tre giorni di
manifestazioni assolutamente pacifiche dove non è volata nemmeno una
pietra ma si sono uditi solo slogan e preghiere. Nonostante questo
Pechino ha risposto immediatamente con la solita brutalità e durezza.
Manifestanti arrestati e torturati in prigione, asfissianti controlli
di polizia, monasteri assediati per impedire ai monaci di uscire. Ed è
a questo punto che la collera dei tibetani è esplosa incontenibile
contro ogni segno visibile della presenza cinese. I simboli
dell’occupante (negozi, edifici, automobili) sono stati presi a
sassate, divelti e a volte dati alle fiamme. In qualche sporadico caso
a fare le spese della frustrazione tibetana sono stati anche alcuni
coloni cinesi. I nodi di decenni di vite vissute come cittadini di
terza classe nel proprio Paese, decenni di angherie, umiliazioni,
sofferenze, discriminazioni sono infine venuti al pettine.
E’ difficile capire cosa stia passando nella testa della nomenclatura
cinese in questo momento. Difficile stabilire se il segnale che sta
arrivando loro dalle vie e dalle piazze di Lhasa, dai monasteri e dai
villaggi dell’Amdo (luogo natale dell’attuale Dalai Lama) e del Kham,
perfino da alcuni insediamenti dei nomadi, li farà recedere dalla
posizione di totale chiusura in cui si sono autorinchiusi. Difficile
capire se almeno qualcuno nelle stanze dei palazzi del potere di
Zhongnanhai stia rimpiangendo di non aver dato ascolto e spazio alla
posizione moderata e disponibile del Dalai Lama. Di aver sempre sempre
chiuso in faccia la porta alla richiesta di dialogo del Dalai Lama. Di
aver detto sprezzantemente ai suoi inviati che “non esiste alcun
problema tibetano”.

Di almeno una cosa però adesso, grazie all’eroismo e al sacrificio
di centinaia di persone, possiamo essere certi. Hu Jintao, Wen Jiabao e
gli altri autocrati di Pechino hanno dovuto prendere atto che esiste un
“problema tibetano”. A caldo stanno dando la colpa alla “cricca del
Dalai” ma non si deve escludere che possano aver compreso come in
realtà stanno le cose. Ed ora si trovano di fronte ad un bivio. Possono
illudersi di pensare di risolvere il problema con ancora più
repressione, ancora più torture, ancora più condanne a morte, ancora
più coloni oppure, realisticamente, comprendere una buona volta
l’irriducibilità della questione tibetana. Probabilmente è per loro
l’ultima spiaggia. Perché se non ottiene almeno una modesta apertura di
credito, la ragionevole politica del Dalai Lama non avrà più alcuna
chance agli occhi del suo popolo che già oggi, nonostante l’immensa
devozione che lo circonda sul piano religioso, politicamente non
convince settori significativi della sua gente.

Nei prossimi giorni vedremo cosa accadrà nel Paese delle Nevi. E’
di pochi istanti fa la notizia che il Dalai Lama, come gesto estremo
per porre termine alla carneficina e in risposta alle accuse cinesi di
essere il mandante delle manifestazioni, si è dichiarato disponibile a
dare le “dimissioni” dalla guida del suo governo. Si tratta
probabilmente di una minaccia indirizzata ai dirigenti cinesi affinché
gli consentano di poter continuare a chiedere al suo martoriato popolo
moderazione. Nei fini e nei mezzi. Dubito che possa essere ascoltato
con autentica sincerità da quanti hanno ancora le mani lorde del sangue
di centinaia di vittime e non smettono di ricoprire l’Oceano di
Saggezza di insulti e contumelie. Comunque vadano le cose però, ritengo
che sia indispensabile che continui in India il movimento gandhiano
della “Marcia Verso il Tibet” che potrebbe divenire per la questione
tibetana, quello che la “Marcia del sale” del Mahatma Gandhi
rappresentò per la lotta di liberazione dell’India. E’ fondamentale che
la vitalità, l’energia, l’entusiasmo, che la “Marcia Verso il Tibet”
sta suscitando tra i tibetani e i loro sostenitori internazionali non
si spengano e anzi vengano continuamente alimentati. Solo così infatti
le donne e gli uomini del Tibet, dentro e fuori il loro Paese, potranno
trovare la forza, l’energia, l’ispirazione per continuare la lotta
senza soccombere ai demoni della rabbia cieca, della disperazione e del
furore. Solo così la scintilla della battaglia per un Tibet libero
potrà rimanere ben viva e visibile a tutti. Anche ai cinesi di buona
volontà.

Perché il Tibet viva.

*Piero Verni

Giornalista e studioso delle culture indo-tibetane da oltre
vent’anni compie viaggi di studio e ricerca in India, Tibet e nella
regione himalayana e a queste aree geo-culturali ha dedicato numerosi
articoli e reportage apparsi su pubblicazioni italiane e straniere.
Sulle società e sulle tradizioni dello Himalaya, dell’India e del Tibet
ha anche scritto diversi libri, tra i quali Vivere in India (Milano
1977); Guida all’India (Milano 1973, 5 edizioni); Dalai Lama. Biografia
autorizzata (Milano 1990, nuova edizione aggiornata e ampliata Milano
1998); Tibet: le danze rituali dei lama (Firenze 1990), Mustang, ultimo
Tibet (Milano 1994). Piero Verni è inoltre autore di alcuni
documentari, tra i quali: Ladak: feste di inverno nel piccolo Tibet;
Mustang, ultimo Tibet; Tibet, cuore dell’Asia; Il mio Tibet

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