Un racconto in presa diretta degli scontri di lunedì 17 marzo tra i
serbi, le forze di polizia Unmik e i soldati della Kfor. Da un
cooperante italiano che vive in Kosovo da due anni.
Giornata uggiosa quella di lunedì. Mitrovica
si è svegliata sotto un cielo triste, quasi a voler piangere gli ultimi
suoi caduti, quelli degli scontri del 17 marzo di 4 anni fa, quando, a
seguito di alcune sommosse partite da Mitrovica ed estesesi poi in
tutto il Kosovo persero la vita 19 persone e molte case serbe e chiese
ortodosse subirono danni. La simbologia e gli anniversari in questa
parte dei Balcani sono nitidamente vivi e impressi nella memoria della
sua gente, sono tanti infatti gli eventi di rilievo avvenuti in questo
principio di primavera. Dallo scoppio della guerra tanta acqua è
passata sotto il fiume Ibar e Mitrovica ha subito significativi
mutamenti. Tra questi, la divisione ben marcata della città pattugliata
costantemente dalla Kfor, l’interruzione o comunque l’arretramento, dal
2004, del dialogo interetnico avviato da tante organizzazioni dalla
fine della guerra, una ben visibile diffidenza tra le due maggiori
etnie divise dal ponte. Da ultimo, come forma di cambiamento che ha
lasciato traccia indelebile su quelle che sono le relazioni presenti e
future delle due maggiori parti in causa, va annoverata la
dichiarazione unilaterale di indipendenza del governo di Pristina del
17 febbraio 2008, appena un mese fa.
Gli
scontri di lunedì, sebbene avvenuti esattamente 4 anni dopo ed aventi
sempre lo stesso epicentro, Mitrovica, presentano una differenza
sostanziale rispetto al 2004: mentre allora la partita si giocava tutta
tra serbi ed albanesi con Kfor che faceva da arbitro, per una sfida che
per il quieto vivere di tutti, internazionali compresi, ha portato alla
divisione netta della città in due parti, lunedì dalla tribuna gli
albanesi guardavano i due protagonisti, i serbi e la Kfor, contendersi
una partita ben più difficile consumata tutta sull’indipendenza.
Proprio perchè ancora in corso, in quest’ultima sfida i contorni sono
molto più sfumati e meno nitidi. Sicuramente bisognerà attendere i
tempi supplementari prima che la cicatrice dell’indipendenza si possa
rimarginare e assumere una forma compiuta. Non dovrebbe risultare
utopistico parlare oggi di divisione della parte nord dal resto del
Kosovo, e restituirla, con un forte grado di autonomia, alla vecchia
madrepadria. Così come ulteriori e più sanguinosi scontri estesi in
altre zone del Kosovo potrebbero, spingere un consistente numero di
serbi a riparare altrove. Il vaso di pandora è stato appena
scoperchiato: dal 17 febbraio una serie di vicende e ritorsioni serbe
hanno sempre più spinto l’amministrazione Unmik a prendere
provvedimenti e decisioni precise in quella parte nord del Kosovo che
per nove anni l’ha vista latitante. Prima con le proteste lungo il
confine nord, poi con l’entrata, ad insaputa di Unmik, di un treno
proveniente dalla Serbia, poi con la protesta dei poliziotti serbi
allontanatisi dal servizio perchè non riconoscevano la nuova
istituzione che li rappresentava ed infine, venerdì 14 marzo, con
l’occupazione del Palazzo di Giustizia da parte di una cinquantina di
manifestanti serbi che hanno piantato la bandiera serba sul tetto.
Questo per citare i fatti più eclatanti che sembrano portare Unmik a
mostrare una determinazione sempre più forte. Si è arrivati infatti
alla giornata del 15 marzo ed alla secca dichiarazione di Rucker per le
violazioni appena perpetrate dai serbi.
Il
ripristino della legge e dell’ordine richiesto con forza dal
Rappresentante Unmik in Kosovo non lasciava presagire nulla di buono.
Tant’è che alle 5.30 di ieri la polizia Unmik e Kfor, hanno fatto
irruzione nel palazzo occupato hanno arrestato i circa 50 occupanti
serbi. Alle 5.30 del mattino però la nuova partita era appena iniziata
lasciando circa 80 manifestanti serbi feriti, due in maniera grave e
circa 25 tra poliziotti Unmik e soldati Kfor feriti. Fonti Kfor parlano
di tre soldati francesi feriti gravemente la mattina durante le
operazioni di sgombero e di un soldato ucraino, seriamente ferito negli
scontri, che è morto questa mattina. Le continue «forzature» dei serbi
del nord e l’uso di armi automatiche da parte degli stessi in pieno
centro cittadino dovrebbero far riflettere, e non poco, sulla scarsa
presa di Unmik e del suo potere in queste zone durante questi lunghi 9
anni.
Mitrovica, svegliatasi sotto una pioggerella primaverile ha sentito il
boato delle armi. La parte sud della città, quella albanese,
indifferente per quanto stava succedendo oltre il fiume, ma ben
informata dei fatti, si accingeva a riversarsi per strada e nei caffè,
nel mercato di frutta e verdura, nei tanti negozi di telefonia. I serbi
a nord, già dalle otto del mattino scendevano per strada. Tanta era la
rabbia tra i giovani, tanta l’amarezza per questo inaspettato uso della
forza da parte della Kfor. Stojan infatti sosteneva che la ferita del
17 marzo 2008 è molto più profonda rispetto a quella di un mese fa.
«Per l’indipendenza almeno eravamo preparati», ripeteva.
La
folla era in fermento verso le le 12.30. La manifestazione sebbene
programmata per la solita ora, 12.44, rischiava di non tenersi. Tante
erano le voci di dissenso e di confusione. Maxo, gestore del Caffe
Paris diceva che un giornalista italiano era stato spintonato e privato
della sua telecamera. Un suo vicino preoccupato diceva che una persona
serba di trent’anni era stata uccisa. Nonostante gli animi irrigiditi,
la manifestazione si è tenuta lo stesso. Da spettatore, insieme
soltanto a due giornalisti russi, ho avuto modo di vedere non più di
250 persone, tra loro anche molti signori di mezza età, che inveendo
contro gli occupatori e sventolando bandiere serbe hanno marciato
pacificamente fino a raggiungere sul ponte il monumento eretto in onore
dei caduti serbi durante i bombardamenti Nato. La manifestazione, molto
composta, raggiunto il posto è rimasta per più di un minuto in
religioso silenzio commemorando appunto i suoi morti. Un cordone di
persone ai lati della strada, sicuramente per ripararsi dalla pioggia,
seguiva con gli occhi. Tra questi anche due energiche signore che
notando i due giornalisti con la telecamera si sono dirette
immediatamente da loro chiedendogli la nazionalità. Ritornando col
sorriso ad alta voce ripetevano «Russia, Russia». Come per dire sono
nostri amici, non temete.
Dalle due in poi la tensione si è smorzata, la gente ha lasciato
la strada per riempire i bar e commentare ancora una volta l’ennesima
sfida ben riuscita contro le forze di occupazione. La ferità resterà
aperta ancora a lungo ed in discussione ci saranno non soltanto gli
equilibri politico-diplomatici tra le forze occidentali e non, ma anche
la stessa relazione per chi, occupandosi di cooperazione è costretto a
confrontarsi con istituzioni locali serbe ed il mondo
dell’associazionismo. La spaccatura tra i diversi sogetti
istituzionali, da oggi 18 marzo sarà ancora più profonda. Le ricadute
negative di breve periodo saranno tutte per coloro che dovranno
misurarsi con esse. Organizzazioni internazionali e non.
Cooperante italiano, da due anni in Kosovo