Against Wall-a Nonviolent Action

In questo villaggio vicino a Ramallah, il muro erode oltre il 60 per cento delle terre palestinesi. Qui si danno appuntamento cittadini di tutto il mondo ed israeliani contro l’illegalità della sua costruzione

 

di Francesca Marretta
Liberazione, 20 aprile 2007

 

Bil’in,
Ramallah – Sotto la tenda allestita nel cortile della scuola
elementare, ornata da tappeti variopinti ricamati, si sono riuniti per
due giorni palestinesi, israeliani, francesi, americani. La "Seconda
conferenza sulla resistenza popolare" di Bil’in, villaggio di 1400
abitanti situato a 16 chilometri da Ramallah, dove il muro costruito
dallo stato di Israele erode il 60 per cento delle terre, si è conclusa
ieri, mentre oggi è prevista, come avviene da due anni a questa parte,
la manifestazione di protesta contro l’illegalità e l’ingiustizia
rappresentata dalla costruzione di quello che i palestinesi chiamano
"Muro dell’Apartheid" ed il governo israeliano definisce "barriera di
separazione difensiva".

 

Bil’in
è diventato il simbolo della lotta non violenta dei movimenti popolari
di resistenza locale e internazionale contro l’occupazione e contro un
muro che “distrugge il presente ed il futuro del popolo palestinese” e
che “nulla ha a che fare con la sicurezza di Israele, ma con altra
terra da sottrarre ai palestinesi”, come ha affermato in apertura del
lavori della conferenza Naser al Quidua, ex ambasciatore dell’Olp alle
Nazioni Unite, incaricato di presentare il caso davanti alla Corte
Internazionale di giustizia dell’Aja nel 2004. La corte stabilì che “la
costruzione del muro da parte di Israele nei Territori occupati,
compresa Gerusalemme” è “contraria alla diritto internazionale”, di
conseguenza, “Israele ha l’obbligo di smantellare la struttura e
provvedere al risarcimento dei danni causati”. Era il 9 luglio 2004.

 

I
lavori per la costruzione del muro a Bil’in sono iniziati il 20
febbraio 2005. Per la costruzione della barriera di cemento sono stati
sradicati in questo villaggio 1000 alberi di ulivo. Agli abitanti di
Bil’in, privati delle proprie fonti di sostentamento si presentavano
due alternative, vivere da miserabili o emigrare. Decisero invece di
mettere in piedi un comitato di resistenza popolare, che oggi, come
ogni venerdì, organizza una marcia di protesta a cui prendono parte
anche cittadini israeliani e persone di tutto il mondo.

 

Gli
israeliani che da due anni manifestano a fianco degli abitanti di
Bil’in contro la costruzione del muro non sono convinti, a differenza
del governo che in questo caso non li rappresenta, della necessità di
costruire una cortina di difesa 5 chilometri all’interno della Linea
Verde. Né della necessità di separare olivi e colture dai legittimi
proprietari, distruggendone le fonti di sostentamento.

 

Tra
i circa 200 partecipanti alla conferenza, oltre ad internazionali
provenienti da organizzazioni sociali di base, gruppi di volontariato,
Ong, sindacati, registratisi per prendere parte ai workshop sulle
strategie di implementazione di forme di resistenza non violenta, sono
stati presenti intellettuali israeliani come lo scrittore israeliano
Ilan Pappe, la giornalista e scrittrice Amira Hass, Jeff Alper del
comitato contro la demolizione delle case, il ministro della
Comunicazione del governo di unità nazionale palestinese Mustafa
Barghouti e la vicepresidente del Parlamento europeo Luisa Morgantini.
“Quello che da due anni sta avvenendo a Bil’in è esemplare: è la
risposta non violenta che israeliani e palestinesi insieme oppongono
alla confisca della terra, alla demolizione di case, all’umiliazione
dei check-point e alla segregazione del muro, frutto di 40 anni di
occupazione militare israeliana”, ha dichiarato l’europarlamentare
italiana, che ha sottolineato come la resistenza popolare di Bil’in
faccia tornare in mente i giorni della prima Intifada, “quando
non c’erano le bandiere di Hamas e Fatah, ma solo la bandiera
palestinese”. Quarant’anni di occupazione sono abbastanza, ha
dichiarato la Morgantini, convinta della necessità del riconoscimento
del nuovo governo di unità nazionale palestinese da parte della
comunità internazionale, in quanto “opportunità unica” e probabilmente
“l’ultima” via per rilanciare un negoziato di pace tra israeliani e
palestinesi.

 

Il
villaggio di Bil’in è uno dei 92 villaggi della Cisgiordania la cui
esistenza è stata sconvolta dalla costruzione del muro, che, secondo l’anti-Apartheid Wall Campaign,
una volta terminato, ingabbierà in una cortina di cemento estesa per
730 chilometri, 361mila persone, annettendo di fatto il 47 per cento
della West Bank. Questo avviene contemporaneamente all’avvio
degli incontri bisettimanali tra Olmert e Abbas, a cui è affidato
mandato di negoziare la pace, affinché un giorno possano coesistere
l’uno accanto all’altro lo Stato israeliano e quello palestinese, i cui
confini per gli abitanti di Bil’in come degli altri villaggi-bantustan
circondati dal cemento, non possono essere quelli delineati dal muro,
ma unicamente quelli stabiliti dalle risoluzioni internazionali.

 

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