Un deserto chiamato pace

raq – 19.3.2008
Un deserto chiamato pace
Dopo cinque anni di guerra l’Iraq resta diviso e in fiamme
Il
presidente statunitense George W. Bush difenderà oggi la
decisione d’invadere l’Iraq in un discorso al Pentagono in occasione
del quinto anniversario del conflitto. ”È stata una decisione
giusta. Questa è una battaglia che l’America può e deve
vincere”, spiegherà Bush ai generali a stelle e strisce, gli
stessi che non più tardi di una settimana fa hanno diffuso un
rapporto nel quale ammettevano che al-Qaeda in Iraq non c’era sotto
il regime di Saddam, ma vi è arrivata dopo l’invasione Usa.
Secondo le anticipazione diffuse dalla stessa Casa Bianca, Bush
sottolineerà i buoni risultati ottenuti con la strategia del
surge, adottata l’anno scorso, per la quale ”in Iraq siamo
testimoni della prima insurrezione araba su larga scala contro Osama
bin Laden, la sua truce ideologia e la sua rete di terrore”.


bush e al-malikiDiscorsi
e omissioni.
Un riferimento diretto alla migliore idea che abbia
avuto l’amministrazione Usa da quando ha invaso l’Iraq: trattare con
i sunniti e i loro cosiddetti Consigli del Risveglio, milizie tribali
sunnite, che si sono affiancate alle truppe statunitensi nella lotta
ai ribelli integralisti legati ad al-Qaeda.
Anche
il premier iracheno Nuri al Maliki ha aperto ieri i lavori della
Conferenza di riconciliazione nazionale che, per due giorni, riunirà
a Baghdad centinaia di delegati di quasi tutti i gruppi politici
iracheni, parlando della collaborazione con i sunniti. ”Nonostante i
molti progressi politici raggiunti, la strada da percorrere è
ancora lunga, piena di sfide e pericoli”, ha dichiarato il premier
nel suo discorso d’apertura, nel quale ha anche esortato tutte le
forze politiche a sostenere il processo di riconciliazione nazionale.
Nel suo discorso, al Maliki ha inoltre rivendicato la formazione di
29 Consigli popolari sunniti, chiamati sahwa, che si battono
assieme alle forze governative e a quelle statunitensi contro i
guerriglieri e ha affermato che altri 13 consigli dello stesso genere
sono in via di formazione.

Quello
che però non viene detto è che sarebbe bastato pensarci
cinque anni fa, non lasciando il proconsole Paul Bremer III, al quale
venne affidata la gestione del dopo Saddam, liquidare in massa la
classe dirigente sunnita, consegnandola alla disperazione e
all’insurrezione. Non verrà detto, nel discorso di Bush, che
la guerra ha avuto, e continua ad avere, un alto costo di vite umane
e finanziario, ma aggiungerà che tali ”costi sono necessari
se si considera il costo che avrebbe una vittoria strategica dei
nostri nemici in Iraq: ritirarsi significherebbe far precipitare il
Paese nel caos e imbaldanzire i terroristi”. Esattamente quello che
è avvenuto a causa dell’invasione.

La
situazione politica in Iraq, dopo cinque anni di guerra, è ben
rappresentata proprio da questa Conferenza per la Riconciliazione. Il
Fronte della Concordia, principale gruppo parlamentare sunnita, e la
lista laica al-Iraqiya, che fa capo all’ex premier Iyad
Allawi, hanno boicottato l’appuntamento, bollandolo come una
operazione di propaganda a favore del governo. La conferenza fa
seguito all’iniziativa svoltasi, sempre a Baghdad, il 17 dicembre del
2006. Maliki ha preferito, per il momento, glissare sulle assenze e
ha lanciato un monito all’Iran e alla Turchia, esortando ”i paesi
confinanti a non interferire negli affari interni dell’Iraq”.

un miliziano del pkk in azione contro le truppe turcheUn
paese spaccato: i curdi al nord.
Il
primo paese al quale si è riferito, tra le righe, al-Maliki è
senza dubbio la Turchia. Il governo di Ankara, con brevi momenti di
tregua, tiene sotto un’asfissiante pressione armata l’Iraq
settentrionale, la regione curda del Kurdistan, ritenuta dai turchi
la retrovia dei guerriglieri curdi del Pkk che colpiscono in
territorio turco. Aviazione e truppe corazzate, più di una
volta, hanno oltrepassato il confine, portando la guerra nella
regione autonoma del Kurdistan iracheno. Lo stesso presidente della
Repubblica, il curdo Jalal Talabani, ha provato più di una
volta a chiedere che il governo iracheno prendesse una chiara
posizione contro le incursioni turche, ma Baghdad è stata
sempre messa a tacere dagli Usa che tentano di trovare una soluzione
concordata con la Turchia senza arrivare alla rottura diplomatica tra
due paesi che sono tra i pochi alleati affidabili di Washington nella
regione. Sono in molti, però, a sostenere che le azioni del
Pkk siano solo il grimaldello che Ankara ha deciso di utilizzare per
sancire che sulla questione di Kirkuk non si deve decidere senza la
Turchia. Kirkuk, potenzialmente, è uno dei più grandi
giacimenti petroliferi del mondo. La città, con popolazione
mista curda, araba e turcomanna, è contesa. Il piano
originario degli Usa, con ogni probabilità, puntava a ‘dare’
Kirkuk ai sunniti, in quanto sia il nord curdo che il sud sciita sono
già ricchi di petrolio. I curdi, però, in un paese che
mai dalla sua fondazione è stato così diviso, non
accettano questa soluzione e vogliono far valere i loro diritti sulla
città, ‘arabizzata’ a forza da Saddam, e adesso ‘curdizzata’ a
forza dai nuovi padroni.

Il
destino di Kirkuk sarebbe dovuto decidersi con un referenduml,
previsto per dicembre 2007. Le pressioni turche, che guardano con
terrore a un Kurdistan che si arricchisse anche dei giacimenti della
città contesa, sono riuscite a ottenere un rinvio del
referendum a luglio 2008. Ma la situazione resta molto tesa, al punto
che non è stato ancora possibile votare in parlamento il testo
unico della nuova Legge del Petrolio irachena.


moqtada al-sadrUn paese spaccato: gli sciiti al
sud.
Il
secondo paese confinante al quale si riferiva Maliki nel suo discorso
di ieri è l’Iran, che ha un grande potere attrattivo sugli
sciiti che rappresentano il 60 percento della popolazione irachena.
Un successo che gli Usa possono vantare in merito è la fine di
Moqtada. La corrente politica che fa capo al leader
radicale sciita Moqtada Sadr, infatti, ha ritirato la propria
delegazione della conferenza a Baghdad, ma ormai la sua influenza è
al tramonto.
Moqtada al Sadr ha
gettato la spugna. E’ questa la grande novità che, negli
ultimi mesi, ha sancito la fine della breve ma intensa parabola
politica dell’ayatollah radicale vicino all’Iran. E proprio in Iran,
nella città santa di Qom, quella di Khomeini per intenderci,
Moqtada si è ritirato per completare i suoi studi coranici e
diventare davvero un dottore del diritto islamico.

Prima
di partire, però, al-Sadr ha sciolto le milizie del Mahdi, il
suo esercito privato che si era distinto per ferocia nel conflitto
interreligioso che ha contrapposto sciiti e sunniti in Iraq.
"La
presenza degli occupanti", si legge nel sermone preparato da
Moqtada al-Sadr, per la preghiera del venerdì con la quale ha
salutato i suoi seguaci, ”e il fallimento dell’esercito del Mahdi
nel tentativo di liberare l’Iraq, così come la disobbedienza
di molti e il loro deviare dalla retta via mi hanno portato a
isolarmi in segno di protesta. Molti che mi erano vicini si sono
allontanati per ragioni materialistiche o per desiderio di
indipendenza. Altri mi sono ancora fedeli e leali ed è a loro
che mi rivolgerò attraverso l’istruzione e l’insegnamento".

In
agosto al Sadr aveva annunciato la sospensione delle attività
della sua milizia e questo aveva portato a un drastico calo delle
violenze in Iraq. Di recente aveva rinnovato il cessate il fuoco,
affidando all’ostruzionismo parlamentare l’ultimo baluardo di
protesta. L’uscita di scena di Moqtada, almeno per il momento,
sancisce il dominio della corrente sciita che fa riferimento
all’ayatollah al-Sistani, avversa all’Iran e incline al compromesso
con gli Stati Uniti e il governo di al-Maliki.


un fedele ai funerali dell'arcivescovo caldeo di mosulI
cristiani e il centro sunnita.
I
problemi attuali dell’Iraq, però, non sono solo sulla
ridefinizione degli equilibri tra il nord e il sud del paese. Al
centro, infatti, resta una nebulosa indefinita, rappresentata dai
sunniti e dalle altre minoranze che abitano il puzzle di etnie,
religioni, lingue e interessi della regione. I cristiani, per
esempio. La moltitudine di persone che ha
partecipato ai funerali (nella chiesa di Mar Adaa a Karamless,
villaggio cristiano situato una trentina di chilometri a ovest di
Mosul),di monsignor Paulus Faraj Rahho, arcivescovo caldeo, rapito
nei giorni scorsi e rinvenuto cadavere, ha ricordato a tutti che
esistono anche i cristiani in questa terra insanguinata.
Proprio Mosul, secondo quanto
dichiarato dal governo iracheno e dai vertici militari Usa, è
diventato l’ultimo rifugio dei miliziani di al-Qaeda in Iraq.
Scacciati da Falluja, scacciati dalla provincia dell’al-Anbar, i
guerriglieri integralisti si sarebbero rintanati nei pressi della
cittadina mista e, da mesi, si prepara una furiosa operazione
militare nei dintorni d Mosul.
Lo schema sarà quello adottato,
in passato, per Samarra, Falluja e Ramadi. Aviazione Usa e fanteria
irachena, poi fanteria Usa. E tanto, tanto sangue.
Dopo cinque anni, insomma, i problemi
restano tanti e le soluzioni paiono sempre una toppa inserita con
ritardo, dopo che il tappetto è stato calpestato in massa.
Resta un paese diviso tra tensioi religiose, politiche, etniche ed
economiche come non lo era mai stato prima. La fine della dittattura
di Saddam, invece che una festa di liberazione, si è tramutata
nel caos dove, come innumerevoli Fortezze Bastiani, rimangono le
enormi basi militari statunitensi come cattedrali nel deserto.
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